(contest non competitivo Raynor’s Hall, tema: “lupo”)
La resa dei conti.
E’ quasi ora di cena, abbiamo tutti fame e s’inganna l’attesa chiacchierando.
– In ogni caso – sentenzia Marco – ciò che conta è il pareggio di bilancio e che le banche concedano prestiti.
Per Marco, la disoccupazione è un inconveniente transitorio, l’Euro una religione e l’inflazione un flagello di Dio. La sua fiducia nella divina lungimiranza del mercato è incrollabile: il mercato ci premia con il benessere o ci punisce con le crisi in base alla bontà delle nostre politiche economiche e sociali.
– A me sembra un circolo vizioso – mugugno pensieroso – col cambio fisso, per aumentare la competitività devi svalutare il lavoro, ma se i lavoratori hanno sempre meno soldi, nessuno compra. Allora per sostenere la domanda si gonfia prima il debito pubblico e poi quello privato finché, ciclicamente, esplodono le crisi con annessi “fate presto” a chiudere il cerchio, visto che con la scusa dell’emergenza si tagliano ulteriormente i salari.
Marco alza gli occhi al cielo.
– Bla, bla, bla. Allora cosa vorresti fare? Tornare al baratto, all’età della pietra? La libertà e il benessere del mondo industrializzato dipendono dal libero mercato, se non siamo capaci di adattarci al cambiamento vuol dire che non meritiamo di sopravvivere. E’ come la selezione naturale per Darwin, hai presente? L’avevano già capito pure gli antichi romani: homo homini lupus, l’uomo è un lupo per l’uomo.
– Ma se dietro l’angolo c’è un crack finanziario ed economico su scala globale, con centinaia e centinaia di trilioni di derivati in precario equilibrio sul nulla – protesto – qualcuno deve aver sbagliato i conti!
– Non è detto. Magari è solo che non siamo ancora abbastanza creativi: ci facciamo troppe pare, siamo bamboccioni viziati, abbiamo troppe pretese. Diritti, diritti, diritti… e i doveri? Così non saremo mai perfetti imprenditori di noi stessi! Non attireremo mai i grandi capitali internazionali. La verità è che non siamo ancora abbastanza competitivi… ci vuole più flessibilità, Cristo, più flessibilità!
Mi gratto la barba incolta, perplesso. Prima che io possa replicare, Carlo sbotta.
– Ma in pratica, cos’è ‘sta cazzo di flessibilità che continui a ripetere come una parola magica??
Pausa. Silenzio.
Provo a dissipare la cortina fumogena, ben sapendo di espormi agli strali di Marco.
– Beh, flessibilità vuol dire meno diritti, più precariato e più gente a spasso, ovvero le condizioni ideali per avere sempre una massa di disperati pronti a rimpiazzarti se non ti accontenti di lavorare per un tozzo di pane.
– Cazzate! La flessibilità crea occupazione e stimola la capacità di reinventarsi. E’ l’idea del posto fisso che ha impigrito i lavoratori e bloccato il mercato del lavoro. Sei produttivo? Bene. Sei un fannullone? Licenziato. Questa è vera meritocrazia. Per anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ora è inutile che ci lamentiamo se ci tocca stringere la cinghia, se non riusciamo a competere su scala mondiale. Adesso c’è la Cina! Le imprese devono internazionalizzarsi, ci vuole più Europa altro che piagnistei da perdenti, incapaci di stare al passo coi tempi.
– Non so. Forse hai ragione tu – replico smorzando i toni – ma nel mondo, anno dopo anno, la realtà dei fatti è che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E’ soltanto una questione di meriti? Oppure i grandi capitali finanziari orientano le politiche economiche in modo da tutelare soprattutto i loro interessi e privilegi?
– Ma quali privilegi! Cosa c’entrano i privilegi con la capacità di produrre ricchezze. Per essere vincente sui mercati devi possedere abilità, genio, spregiudicatezza, perizia, creatività, esperienza, prestigio… Privilegiati siamo noi che pretendiamo di togliere ricchezze a chi ne ha prodotte di più per darle a chi ne ha prodotte di meno.
– Quello è Robin Hood.
– No bello, è la tassazione progressiva, è lo stato sociale… ecco, in fondo quello che tu chiami diritto, è solo un privilegio che ti viene accordato dalla magnanimità di chi è più bravo di te. La ricchezza è prodotta dai grandi capitali e dalle élite finanziarie che li controllano, dunque è giusto che chi genera grandi profitti rivendichi la libertà di imporre il suo volere… è per il bene dell’umanità intera, se ci pensi è una cosa logica.
– Mah… eppure la domanda dovrebbe contare almeno quanto l’offerta, se non di più. Voglio dire, se è la domanda a tenere in piedi la baracca, allora molto dipende dal livello dei salari, quindi è soprattutto il lavoro a creare valore. Ed ecco allora che, di nuovo, ho la sensazione che qualcuno debba aver sbagliato i conti.
– La tua è soltanto invidia verso le élite finanziarie – tronca Marco seccato.
– Allora è pronta la cena? – sbraitano in coro Carlo, Franco e Arturo.
La volta del ponte restituisce un’eco quasi ecclesiastica.
– Ci siamo, rosolata al punto giusto – ci rassicura Marco.
– Amen – dico io.
Marco tira via dal fuoco lo spiedo artigianale, ricavato da una barra filettata donata dal fiume. La nutria non ha un aspetto appetitoso, ma le sue carni hanno un sapore simile a quelle d’agnello.
– Pronti. Allora, il primo giro una coscia a testa, poi ci spartiamo il resto.
(in caso di cose da dire all’autore: malosmannaja@libero.it)
Addendum tecnico: il capitalismo finanziario americano, stella polare di liberisti e federalisti europei, messo a nudo. Osservando la figura si nota come a partire dalla deregolamentazione dei mercati finanziari negli anni settanta, i salari reali smettono progressivamente di crescere, mentre la produttività s’impenna. Maggiore produttività vuol dire più prodotti messi in commercio, cioè maggiori ricavi per le imprese. E’ evidente che se a fronte di un aumento di reddito prodotto, i salari non aumentano, ricchezze sempre maggiori vanno a finire, anno dopo anno, nei profitti dell’azienda, ovvero ad ingrassare il capitale.
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