Chiudo il video-tutorial e sibilo rabbioso: mai in sedia a rotelle. La lampada da tavolo, mostrando illuminata lungimiranza, finge di non prestarmi ascolto, ma scuote il capo sconsolata non appena mi aggrappo al bordo della scrivania per replicare al messaggio di Giulia. Grande invenzione Feisbuk: anche col corpo rattrappito posso puntare belle ragazze e recitare la parte dell’uomo distinto e raffinato benché mi lavi solo una volta a settimana, se viene l’oss del comune. Mi annuso le ascelle: sarà il sudore da stress per la storia della carrozzina, ma oggi puzzo molto più del solito. Digito “ti amo: due parole per dirlo, due giorni per spiegarlo, una vita in due per dimostrarlo” e nel frattempo provo a scoreggiare, curioso di vedere che succede. Incredibile… se non l’avessi verificato di persona non ci crederei: il tanfo nella stanza si riduce, diluendosi col peto.
*ding dòòòng*
Bestemmio in turco, scalcio indietro la sedia e con passi strascicati mi metto in viaggio. Nel giro di due ore attraverso tutto il bilocale, ma quando arrivo al videocitofono non c’è più traccia dello scocciatore: dev’essersi rotto di aspettare. Torno alla scrivania.
*ding dòòòng*… *din-dò din-dò ding dòòòòng*
Occazzo… è la terza volta, questo pomeriggio! Sospiro, mi metto di nuovo in marcia e ricalco i miei passi a ritroso: ormai nel bilocale s’è formato un sentiero di piastrelle battute dove non cresce più l’erba. Lo seguo senza più curarmi di indovinare la giusta direzione e inganno il tempo ammirando il paesaggio: mutande e calzini sporchi, lattine di birra mezze spiaccicate, fogli sparsi, hard disk aperti, computer con le viscere di fuori, fazzolettini usati, scarafaggi morti e un Gregor Samsa crocifisso appeso alla parete.
A metà strada, mi accorgo di aver dimenticato l’iPhone perché inizia a cantare e a vibrare ripetutamente sul ripiano della scrivania: troppo tardi per immaginare di recuperarlo, così mi lascio accompagnare dalle note della suoneria – “Via Lattea”, un vecchio brano di Battiato – continuando a seguire rotte in diagonale nella stanza.
Quando raggiungo di nuovo il videocitofono, nel riquadro di cristalli liquidi galleggia il nulla assoluto. Eppure, non appena do le spalle al monitor per tornare verso la scrivania una voce mi chiama.
– Ehi!! Non mi vedi? Sono qui!
Mi volto, socchiudo le palpebre e esamino con metodo ogni millimetro del monitor.
– Chi sei? Non ti vedo.
– Massì che mi hai visto: sono il nulla – risponde la voce incorporea.
L’iPhone ha ripreso a suonare.
– Ah, ah, ah, e che cazzo vuoi da me?
– Niente… la mia, la nostra identità. Aiutami, ti prego: mi ho perso.
– Mi spiace, non compro niente – replico con sarcasmo quando invece avrei voglia di piangere.
– Non sono in vendita!
– Impossibile.
– Hanno provato, a vendermi, un po’ di tempo fa… ma era un gesto troppo plateale. Azzeccarono la pubblicità e in tantissimi vennero a comprarmi, ma dopo avermi preso giù dagli scaffali i consumatori si ritrovavano con niente in mano. Per riempire il carrello, la gente ha bisogno di qualcosa, non credi? Il nulla non dà la stessa soddisfazione.
L’iPhone continua a suonare… dev’essere accaduto qualcosa ad Anna.
– Mi stai confondendo.
– E’ l’estasi della comunicazione: simboli alfabetici creano dal nulla emozioni e pensieri. Un’esperienza mistica…
– Mi stai confondendo e mi stai pure rompendo i coglioni. Arrivederci.
– E’ normale sentirsi spaesati, ti capisco e… e so cosa provi perché anch’io mi ho perso!
– …
– Ti prego, non te ne andare, aiutami! Sono un nulla labirintico e invisibile, ma fin troppo tangibile. Possiamo smarrirci insieme e poi ritrovare la strada grazie ai cartelloni pubblicitari o al gps del cellulare… possiamo cercare il passaggio a nord ovest nel cyberspazio, diventare insegne luminose, vedere la luce, fare il bagno al chiaro di luna… immergerci e affogare in un lago di cristalli liquidi. Ti prego…
Chiaramente, uno squilibrato. Un ossimoro con un grave disturbo della personalità: un niente con molto da dire.
Chiudo il videocitofono e nello schermo tutto resta uguale, tranne la voce. Ne cerco l’invocazione querula nel grigio uniforme dei pixel ridotti in condizioni di animazione sospesa. Il riflesso della parete finestrata alla mia destra genera un tenue gioco di specchi e intravedo l’ombra del mio profilo nel monitor spento.
Sbuffo: i muscoli affaticati urlano di dolore e stanchezza. Il viaggio di ritorno sarà impegnativo… ogni cosa s’infetta di dolore sotto interferone.
Seguendo a ritroso il raggio di luce, il mio sguardo vaga dal videocitofono al finestrone. Sul balcone del palazzo dirimpetto, la sora Cesira stende i panni. A causa del poetico raggio di luce, la sora Cesira s’illumina d’immenso.
Un attimo dopo, un androide ipertecnologico esce dall’appartamento e la raggiunge sul terrazzino. Si guardano, si annusano, poi l’automa la cinge da tergo e come se nulla fosse iniziano a scopare in bella vista. Mugolii di gola si accodano a pigolii elettronici mentre i due amanti si mescolano in un groviglio d’arti indissolubile.
Senza volerlo, mi scopro eccitato dalla reale disumanità nella quale stiamo affogando. Senza saperne il perché, attendo che tutto sfumi nell’indistinto, compresi i miei pensieri. Un tempo. Oggi, invece, non li comprendo più.
Il cellulare comprende a suonare, ma è solo un refuso mentale: volevo scrivere riprende.
*
(in caso di cose da dire all’autore: malosmannaja@libero.it)
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