Complottista!
Il bar è un’astronave capovolta accanto a uno stradone di periferia. Le porte scorrevoli m’ingoiano e in breve un riff di musica protonica m’inonda d’urto insaccandomi l’udito. Gradualmente, il tipico odore di canfora marziana si sovrappone a quello leggermente speziato del caffè di troposfera. L’ambiente è pieno di luci e di piastrelle lucidate a specchio che rinterzano brilluccichii di sponda creando effetti stroboscopici vertiginosi.
Mi apro un varco tra i mille colori della folla vociante, alla ricerca di Marco e Andrea.
Eccoli.
– Salve a tutti – grido nell’accomodarmi al tavolo – cazzo, non avrei mai immaginato di dover rimpiangere la musica elettronica!
Andrea posta un video olografico su Féisbuk con l’oPhone, Marco ha puntato una brunetta con la parrucca fluo: nessuno dei due dà segno di aver notato il mio arrivo. Sedute al tavolo ci sono pure Samy e Lucia, intente a discutere, per quello che riesco a intuire, di meches ferromagnetiche e acconciature attive.
– Avete già ordinato? – chiedo.
– Sì – risponde Lucia.
– Aggiungo un Marseeme – penso ad alta voce cliccando il codice a barre.
Per un po’ m’incanto ad osservare luci e piastrelle: il gioco di specchi rende impossibile qualunque ulteriore tentativo di riflessione.
– Avete visto la puntata di ieri di “Smartphones e stupidbrains”? – chiede Samy di punto in bianco.
– Bellissima – dico sarcastico – hai presente quando la tipa coi brividi carica l’app “i-lafebbre?” e si appoggia il cellulare sulla fronte? Ho riso per mezz’ora.
– Tu non capisci un cazzo e sei contro la tecnologia per partito preso – frigna Lucia.
– Ma insomma, arriva o no l’ordinazione? – protesta Marco risvegliandosi dalla trance erotica.
Sul pavimento del locale, noto un velo d’acqua di qualche millimetro.
– Non è vero che sono contrario a priori: mi guardo intorno e tiro le inevitabili conclusioni.
– Mah… – protesta Samy – allora dovresti vivere senza cellulare e soprattutto senza internet, almeno per coerenza.
– La rete non è né bene né male, è uno *strumento* e come tale tutto dipende dall’uso che ne fai. Ad esempio, depilarsi con un trapano demolitore a percussione non è un’ottima idea, come pure cercare di abbattere un muro spalmandolo di ceretta a caldo.
– Che paragoni del cazzo. Sei il solito cretino medievale – protesta Lucia.
Non c’è che dire: so come farmi amare dalle donne.
– Cosa cazzo c’entrano il trapano e la ceretta con internet! – sbuffa Marco, cogliendo al volo l’occasione di ingraziarsi la platea femminile.
– Avete ragione – convengo cercando di placare gli animi – internet è uno strumento molto diverso dagli altri – attimo di pausa – ma proprio per questo è più insidioso, nel senso che il moto rotante e battente di un trapano demolitore non innesca patologie quali dipendenza psicologica, comportamenti ossessivi-compulsivi e disturbo narcisistico di personalità.
Olè. Lucia mi lancia un’occhiata carica di disprezzo, Samy non mi sputa in un occhio solo perché al capo opposto del tavolo sono fuori gittata, Marco gongola e Andrea continua a smanettare con l’oPhone. E’ bello sentirsi tra amici. Visto com’è partita la serata, perso per perso, tanto vale suicidarmi, così persevero malefico.
– E vi dirò di più: ho letto uno studio scientifico che dimostra che quattro ore di touch-screen al giorno eguagliano il danno del trapano demolitore a percussione in termini di incidenza del tunnel carpale. A detta degli esperti, però, il trapano è da preferire in quanto nel complesso meno dannoso per la salute e io, da bravo salutista, non posso che tenerne conto.
Silenzio. Gelo. Lucia e Samy riprendono a chiacchierare tra loro mentre Marco si diverte a scrutarmi dall’alto in basso. D’un tratto Andrea, che non sembrava aver seguito il discorso, se ne esce con una presa per il culo impietosa.
– Adesso capisco – chiosa serissimo – quella tua faccia merdosa da frustrato: è perché quando cerchi di condividere i video col trapano, quello gira gira gira senza riuscire a caricarli.
Il gruppetto esplode in un fuoco d’artificio di ghigni, risate e sberleffi.
Incasso il colpo basso, incapace di replicare. Chino il capo in segno di resa nei confronti del maschio dominante e nel farlo mi rendo conto che sul pavimento ristagna almeno una spanna di liquido impalpabile.
Arrivano le ordinazioni. I passi del cameriere smuovono una scia di ondine divergenti.
Tra un boccone e l’altro, Samy s’incarica di farsi portavoce del sentire comune.
– Internet è come una zattera cui dobbiamo aggrapparci tutti. Senza gli altri affoghiamo: la nostra mente e la nostra vita individuale da sole sono troppo limitate, non siamo più sufficienti, non ci bastiamo più per essere interessanti.
Non replico, colpito troppo duro dallo scambio di battute precedente, continuando a sorseggiare il Marseeme.
Anche Lucia, visto il mio coma dialettico, approfitta per infierire.
– Anch’io una volta costruivo castelli in aria, ma poi… poi ho capito che erano come castelli di sabbia in riva a un mare che mi chiamava: dovevo… dovevo navigare!
– Che bella immagine, Lucia – sviolina Marco.
– Sei troppo chiuso – conclude Samy – dovresti lasciarti andare, condividere, laicare, taggare, ma soprattutto postare di più.
Sento il liquido bagnarmi il culo: il livello è salito gradualmente fino a superare di qualche centimetro la seduta dello sgabellino.
– Forse avete ragione – convengo.
– Certo che abbiamo ragione! – esulta Lucia soddisfatta – a te sembra che il mare distrugga il castello costruito sul bagnasciuga, ma in realtà ogni singolo granello del castello si è solo sciolto nel mare… è diventato tutt’uno col mare che navighiamo. Non capisci? Non è bellissimo? – chiede con sguardo rapito.
Capisco. E proprio per questo penso che non è bellissimo, anzi: i culti misticheggianti che inneggiano alla comunione tecnologica mi hanno sempre fatto paura.
– Devi imparare ad abbandonarti all’euforia virtuale, a godere di quel lieve senso di vertigine che deriva dallo smarrirsi in un’armonia più profonda… più grande.
– Lascia stare, Samy – stizzisce Marco – un tipo come lui non potrà mai godersi appieno la webbrezza.
– Amen, webbrezza, webbrezza a te fratello – dice Andrea mulinando il pollice in aria.
– Webbrezza a voi – risponde Samy prillando velocissimo il primo dito della mano destra su un immaginifico touch-screen.
– Webbrezza, fratelli – ribadiscono i pollici di Marco e Lucia.
Concluso il siparietto, ognuno torna a dedicarsi unicamente al proprio cellulare.
Il liquido è salito fino al ripiano del tavolo. Scuoto il capo e osservo il bicchiere vuoto del Marseeme: inizia a galleggiare e andare alla deriva verso il tavolo vicino. Nel locale, più d’un avventore lancia attorno timide occhiate tra il perplesso e il preoccupato. I meno turbati paiono essere i miei amici. La programmazione musicale s’interrompe per trasmettere un notiziario radiofonico a reti unificate: le parole si confondono, a tratti appena sussurrare, a tratti gridate, rendendo impossibile da decodificare non solo l’informazione in sé, ma addirittura l’ordito della disinformazione. Buffo no? Nella società della comunicazione, tutto affoga nell’indistinto.
– Ma non vi rendete conto che il sistema vi sta manipolando? Vi hanno fatto il lavaggio del cervello, vi portano via il senso delle cose e vi danno in cambio un’esistenza in ammollo.
– Complottista! – brontola Samy senza staccare gli occhi dall’oPhone.
– Non esiste un senso delle cose – taglia corto Marco.
– Lo diceva anche quel cantante neomelodico del secolo scorso, Vasco Rossi: “voglio trovare un senso a tante cose, anche se tante cose un senso non ce l’ha.”
– E se c’è arrivato lui, bellezza, vuol dire che è un dato di fatto proprio sotto gli occhi di tutti – chiosa Andrea con ghigno sarcastico.
All’improvviso, la musica s’arresta e dagli altoparlanti giunge una voce metallica.
– Si prega di abbandonare il locale, ripeto, abbandonare il locale. Il pensiero liquido ha superato il livello di guardia: evacuare gentilmente il locale.
I clienti del bar, per la maggior parte ragazzi, sbuffano, recuperano i loro oggetti personali dai tavoli semisommersi e si avviano verso l’uscita, chi a piedi, chi a nuoto.
Fuori la notte è un imbuto d’asfalto senza stelle. Ci fermiamo nel piazzale del locale, in attesa di asciugarci almeno un po’ prima di risalire in macchina, ognuno immerso nei propri pensieri.
La tragedia si consuma una decina di minuti dopo.
Mentre navighiamo all’ombra di un lampione, un ragazzo strafatto di qualcosa sgomma dal parcheggio e sfreccia accanto a noi. Marco, di spalle, viene falciato via.
– Marco! – grido strozzato.
Insieme a Lucia ci precipitiamo sul corpo dell’amico. Samy e Andrea non si sono accorti di nulla e continuano a navigare assorti. Il corpo di Marco giace riverso sul ventre come un burattino disarticolato. Nella luce fioca, l’asfalto circostante s’è macchiato di un nero ancora più scuro. L’auto che l’ha travolto inchioda una decina di metri più avanti e il pirata della strada esce dal veicolo, ma s’arresta pietrificato incapace di prestare soccorso al groviglio d’arti rattrappito.
– Cristo! Un’ambulanza! – frigno chinandomi sul mio amico rantolante.
Prima che possa farlo io, con la rapidità di un pistolero vecchia maniera, Samy ha già sparato una chiamata d’aiuto con l’oPhone e cancellato Marco dalla lista degli amici.
Attorno al corpo sanguinante s’è raccolto un crocchio di ragazzi.
– E’ morto – dice un tipo che non conosco.
– Sta morendo – precisa una ragazza bassa e grassa.
– No! – protesto serrando i pugni.
– Nessuno lo tocchi – intima una tipa coi capelli fluo zebrati – devono prenderlo su con la barella a cucchiaio! Avrà mille fratture.
– Giusto!
– Sì, non spostatelo.
– M-Marco? – tartaglio a tono più basso. M’inginocchio accanto a lui e scosto dalla fronte un ciuffo di capelli sporchi di sangue.
Marco apre gli occhi, si guarda intorno smarrito ed emette un lungo lamento immobile e straziato. Poi un singulto, o forse un respiro inceppato.
Piange.
Piange e strozza brevi gorgoglii di gola.
Un minimo groppo d’intestini sbucato dal ventre sussulta in sincrono coi singulti.
Nessuno nel capannello ha più il coraggio di fiatare.
Di colpo, una serie di spasmi muscolari lo scuote: prima un braccio, poi l’altro, infine tutto il corpo si contorce mosso da riflessi involontari innescati dall’agonia. Sovreccitato dall’orrore, il mio cervello sbanda ed infierisce ripescando da un ebook di scuola sulla rivoluzione francese la storia di quel nobile che dopo la decapitazione si rialzò senza testa e fece due passi verso le scale, quasi a voler scendere dal patibolo.
Marco tende le braccia avanti, poi indietro, senza una logica. Il tronco storto oscilla pesante insieme alle gambe molli. Dopo qualche attimo sembra che il corto circuito motorio si spenga e invece d’un tratto riprende. Si trascina avanti al passo del giaguaro in direzione del pirata della strada… un metro… due metri.
Nel silenzio assoluto del parcheggio, il fruscio dei vestiti che strusciano contro le increspature dell’asfalto si amplifica all’infinito fino ad assordare ogni altro pensiero.
Inizio a piangere anch’io, in silenzio.
Marco tasta l’asfalto scuro sporco di sangue e afferra una macchia ancora più scura.
Come una preghiera, porta l’oPhone vicino agli occhi e posta un selfie su Féisbuk.
*
(in caso di cose da dire all’autore: malosmannaja@libero.it)
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