“Taxi” – In.versione Clotinsky

recensione dell’album Taxi delle In.Versione Clotinsky

Bando alle ciance: le In.versione Clotinsky sono una delle migliori bands di indie-rock in circolazione (per una definizione di prima mano di “indie-rock”, vedasi i Sebadoh).
Era un po’ che non mi capitava di entusiasmarmi al punto di sentire il bisogno fisico di recensire un album, ma il mese scorso mi sono imbattuto in “Taxi” e i miei nervi acustici han fatto *tilt*. Per capirci, l’impatto emotivo è stato paragonabile all’ascolto del primo album omonimo dei Violent Femmes (quello di “Blister in the Sun”, “Gone Daddy Gone”, “Kiss off” e compagnia bella, era il lontano 1983), una pietra miliare della musica indie con cui peraltro l’ultimo lavoro delle In.versione Clotinsky possiede più d’una analogia. In entrambi i casi, infatti, la materia musicale suona così dannatamente nuda e vera da andare dritta al cuore, facendo impallidire al confronto band super-acclamate dalle fanzine anglofone, tipo Arcade Fire, Deerhunter, Radiohead o Parquet Courts, giusto per fare qualche nome. L’immediatezza creativa, la capacità di giocare con l’essenza d’una trama melodica, sono indubbiamente pregi che accomunano le In.versione Clotinsky ai Violent Femmes e che traducono in musica una vitalità istintiva e sincera, colmando di slancio lo spazio fisico tra quotidianità e arte. In un panorama sempre più posticcio, dove trionfano software musicali e canzoni plastificate, “Taxi” è davvero una salutare boccata d’ossigeno.
Se *l’intensità* con cui le In.versione Clotinsky comunicano le loro trame musicali evoca i Violent Femmes, la loro attitudine minimalista non può non richiamare alla mente i Beat Happening, indimenticati alfieri della musica in bassa fedeltà. L’arrangiamento spoglio e le percussioni scarne fanno da cornice a un sound essenziale nel quale l’idea di fondo è soprattutto quella di fare musica con passione e per passione. Non vorrei però che si finisse per confondere “semplice” con “facile”, errore frequente nella cultura fast-food del nuovo millennio: la semplicità è in questo caso una complessità risolta, onde per cui il buon Pete Seeger amava dire “qualsiasi sciocco può fare qualcosa di complesso, ci vuole un genio per fare qualcosa di semplice”. Ecco, dunque, che le In.versione Clotinsky dopo aver fatto propria la lezione di Calvin Johnson e soci, la rielaborano in modo molto personale, puntando più sulla spontaneità emotiva, a tratti quasi naif, che sull’approssimazione sghemba al limite dell’amatoriale dei Beat Happening. Ne deriva un mettersi a nudo commovente, alla Syd Barrett, un’immediatezza espressiva che ricorda lo sguardo obliquo degli occhi bambini, capaci di offrire con spietata sensibilità e fragile chiarezza squarci rivelatori sulla realtà del mondo.
Altro fantasma che echeggia inseguendo le tracce musicali di “Taxi” sono i Pavement, per l’abilità davvero non comune delle In.Versione Clotinsky nel muoversi al confine tra melodia e dissonanza, specie in alcune parti vocali. Il ritornello di “Cloudy Lens”, le movenze ondivaghe di “Willow Tree”, l’indolenza disarmonica di “Dance III” sono davvero perle di melodia inquieta, in grado di artigliare e ammaliare chiunque vorrà concedere più di un ascolto all’album, ma tutta la materia di “Taxi” si muove su livelli di assoluta eccellenza. Tra gli undici brani che compongono l’opera, infatti, non ci sono canzoni cuscinetto o che suonino meno ispirate, anzi, qua e là la sensazione è la medesima che si prova ascoltando gli album più riusciti dei Guided By Voices: tanta, troppa carne al fuoco, un materiale artistico così denso, ricco di intuizioni geniali e di sviluppi sorprendenti che un musicista esperto in strategie di marketing come, chessò, Prince, non avrebbe esitato a ricavarci minimo minimo 10 albums! Basti ascoltare “Papaya”, dove viene concesso appena poco più d’un minuto ad un intreccio vocale in grado di fissarsi in testa fin dal primo ascolto, uno splendido earworm che invece di trasformarsi nel ritornello orecchiabile d’un pezzo da hit parade underground, resta solo poco più che beffardamente abbozzato.
Non bastasse ancora, a dare corpo al tutto ci pensano i testi, in equilibrio tra poesia surreale e agrodolce ironia, storie raccontate con un calore affabulante quasi teatrale, come nella splendida “Sammy Sings” o come nelle partiture scanzonate di “Flaubert” (dove spicca financo un temerario “na-nana-nana-nana-na”!), che nella replica/bis a fine album, diventa un’incredibile e struggente ninna nanna. Insomma, sanno cantare e incantare, le In.versione Clotinsky, attingendo in modo *creativo* alla sostanza della storia indie, alla faccia di coloro che sostengono che in ambito musicale c’è rimasto assai poco da inventare. Potete dunque immaginare la mia assoluta sorpresa quando nell’accingermi a scrivere questa recensione, ho googlato il nome della band e scoperto che non vengono da Seattle, New York o Chicago, ma da… Ravenna (RA, Italy). Che sfiga, ho pensato: sono condannate a restare un gruppo di culto… Vabbè, in ogni caso, sebbene non le conosca di persona, scommetterei sul fatto che alle In.versione Cotinsky non gliene freghi nulla di procacciarsi una fama planetaria nonché ingenti ricchezze con la loro musica. Godiamocele noi, allora, che magari non saremo in tanti, ma siamo buoni intenditori di musica. Godiamocele e ringraziamo la divina Euterpe per aver voluto regalare alle nostre orecchie e al nostro cuore un giro in “Taxi” così ricco di emozioni, col suo rollio delicatamente obliquo, con la sua sensibilità così audacemente fuori dall’ordinario. In fondo, mi dico, il mondo è pieno di grandi artisti che rimangono – per (s)fortuna – ai margini del grande successo di mercato; non vale la pena di crucciarsi per questo, anche perché, parafrasando Shakespeare e le Clot-in-sky, nel mio piccolo, “posso essere un coagulo in cielo, ma sentirmi re dello spazio infinito”. Valutazione 5/5.

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